LA TRAVIATA

di Giuseppe Verdi

Direzione artistica e musicale MARCO BERETTA

Regia ALBERTO OLIVA

Allestimento scenico CARLO GUIDETTI

Costumi ROBERTO BRANCATI

Sartoria SARTORIA TEATRALE BIANCHI – MILANO

Trucco e acconciature APTA ACCADEMIA PROFESSIONALE DI TRUCCO ARTISTICO SOCIETA’ UMANITARIA DI MILANO

Responsabile trucco acconciature ENRICO MARIA RAGAGLIA 

Aiuto regia: BARBARA BENENATI – FABRIZIO KOFLER – CLAUDIA DI SOCIO

 

Violetta, un’opera d’arte che lentamente si distrugge

In occasione dei 130 anni del Teatro Sociale di Busto Arsizio, prende vita una nuova edizione dell’opera di Verdi.

Violetta Valery, una vita per l’arte, diventa arte attraverso la sua vita.

Che, peraltro, è proprio quanto hanno fatto Dumas prima e Verdi poi, immortalando Marie Duplessis, donna realmente esistita e loro contemporanea, in queste opere immortali.

All’inizio dell’opera, vediamo Violetta sul piedistallo come una statua, un’opera d’arte immacolata (lei stessa si paragona a Ebe, che noi conosciamo soprattutto attraverso la splendida scultura di Antonio Canova). La malattia – che nella tradizione viene considerata tisi, ma che più probabilmente dovrebbe essere sifilide, viste le frequentazioni della donna e il fastidio che pare avesse Verdi verso i colpi di tosse delle interpreti, che non sono scritti nella partitura – qui diventa una metafora del decadimento di una creatura eterea, non umana, nel momento dell’incontro con la realtà, in tutta la sua brutalità.

La regia punta, quindi, a scolpire Violetta come una statua, lontanissima dal tempo in cui vivono gli altri personaggi, immacolata e distante, mentre tutti la fotografano e cercano di avvicinarla con ammirazione e curiosità. Immacolata e distante come l’arte nel nostro mondo contemporaneo, costretta a ribadire il suo ruolo bello e necessario, in una società che le è sempre più indifferente, quando non apertamente ostile.

Nel secondo atto Violetta è diventata una donna in carne ed ossa, vive la vita reale che tutti conoscono, sembra felice, sembra essersi abituata alla sua nuova condizione di umana normalità. Ma la quiete viene travolta dall’arrivo improvviso e inatteso del padre di Alfredo, che mette fine all’idillio, disprezzando, con il suo pragmatismo ottuso, l’incontro dell’arte con la realtà. Non ci crede, ha paura, e impone il suo rifiuto.

Alla festa da Flora, Violetta soffre, si sente tagliata fuori, inadeguata alla sua condizione di partenza, in cui si cerca di riportarla, ma altrettanto inadeguata alla mondanità normale dell’alta società. Resta in disparte, come un pesce fuor d’acqua, ammirando se stessa come un’opera d’arte, ingigantita in un’icona che tutti si contendono al gioco. Si sdoppia e si specchia in se stessa senza più riconoscersi.

La malattia che la conduce alla morte è la corruzione della sua purezza. Quasi come nel Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, c’è un legame stretto e perverso tra la persona fisica e il suo ritratto. Alla fine coincideranno, e l’effige che Violetta dona ad Alfredo è l’immagine di lei stessa morente.

La Traviata proposta nell’allestimento di Alberto Oliva dipinge una Violetta ossessionata dagli uomini, traumatizzata dalla mancanza dei genitori, che l’hanno venduta e costretta a crescere molto prima del tempo. Incontriamo Violetta all’apice della sua scalata sociale, intrisa di ipocrisia e perbenismo, e la seguiamo mentre precipita in un vortice di passione, malattia e abbandono, dominata da incubi, visioni, sogni e allucinazioni che la mandano in confusione, fino ad abbandonare le forze e la voglia di ribellarsi. La morte sopraggiunge perché Violetta smette di lottare.

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