LA TRAVIATA
“Non saranno mica tutti quanti vittime di un incantesimo,
si direbbe che qualche demonio ci abbia messo la coda!”
Tutto parte da una frase del romanzo, in cui Dostoevskij ci svela che Goljadkin, “il nostro eroe”, sta guardando la sua immagine riflessa in uno specchio, salvo poi accorgersi che quello non è uno specchio, ma una porta da cui la figura riflessa sta uscendo, prendendo vita e interagendo con lui. Si tratta di un’allucinazione o di un vero sosia, identico al protagonista ma dotato di una sua realtà? La risposta rimane sempre sul filo dell’ambiguità, sprofondando Goljadkin nei meandri della follia e accompagnando il lettore in un vortice divertente e appassionante. Con lo spettacolo vorrei ricreare questa ambiguità e questa doppia anima forte e vincente nel romanzo, in cui il narratore si diverte a prendersi gioco del suo protagonista, anche un po’ a “bullizzarlo” come si direbbe oggi, mentre lui, il povero Goljadkin, vive tutto il suo dramma autentico di uomo del sottosuolo. Ecco che convivono due anime, quella ironica e distaccata del Dostoevskij scrittore e quella appassionata, contraddittoria e oscura del Dostoevskij uomo.
Lo spettacolo punta a restituire questa duplice anima del romanzo nell’interpretazione di Elia Schilton come Goljadkin e di Fabio Bussotti che si cala nella parte di tutti i personaggi che animano la mente allucinata del nostro eroe e anche nella parte del narratore, che ne descrive azioni e comportamenti con ironico distacco.
Elemento dominante di tutto lo spettacolo è lo specchio, anzi i grandi specchi che compongono la scenografia (ideata da Csaba Antal), che è in continuo movimento a disegnare i vari ambienti in cui Goljadkin si muove, sempre in bilico tra allucinazione e realtà. Sempre si specchia, sempre si riflette in queste grandi superfici specchianti, finché il suo riflesso prende vita autonoma nel sosia, e non ci è dato sapere se questo stia accadendo davvero oppure no.
Ad aumentare l’effetto di scissione dell’io nel Sosia ci sono le proiezioni video di Alberto Sansone e le musiche allucinate di Gabriele Cosmi.
Il tema del doppio è il grande protagonista di questo flusso di coscienza, che vede Goljadkin sdoppiarsi nell’Altro da sé e vivere due vite, una terribile l’altra vincente. In un avvicendarsi di situazioni grottesche, Dostoevskij racconta la follia della vita, l’assurdità dell’orgoglio e la crisi dell’io. L’allucinazione del doppio produce sogno, smarrimento, visioni, ogni riflessione si sdoppia, ogni esperienza si divide in un gioco di specchi dal grande potenziale teatrale. Goljadkin è un personaggio del sottosuolo, drogato di vita, ma sempre più inadatto alle relazioni sociali. Apre la porta – o forse è uno specchio? – e gli appare un sosia allucinato e spaventoso, divertente e assurdo, in grado di sconvolgere completamente la sua esistenza. Piano piano perde coscienza di ciò che è reale e di ciò che esiste solo nella sua immaginazione. Il pubblico viene chiamato direttamente in causa e ingannato dal gioco dei doppi che si riflettono uno nell’altro. Dov’è la realtà e dove l’allucinazione? Esiste un confine netto tra ciò che realmente accade e ciò che viene solo immaginato da una mente visionaria?
Fin qui Il Sosia.
Poi c’è Dostoevskij, in questo momento storico, con il suo essere russo, anzi, a quanto sembra, il suo essere l’incarnazione della “russità”, capace com’è di convogliare su di sé quel sentimento antirusso che si sta diffondendo in Occidente a causa della tragica invasione dell’Ucraina da parte di Putin.
Noi, ovviamente, vogliamo ribadire con forza e decisione, che Dostoevskij con Putin non c’entra proprio niente. Anzi.
Tutta la meravigliosa Bellezza che il più grande romanziere di tutti i tempi e di tutte le letterature ci ha regalato nasce proprio dalla grazia che lo zar di allora gli ha concesso, commutando la pena di morte in lavori forzati in Siberia. Una condanna da scontare fino in fondo, dovuta a crimini politici, sovversione contro il potere assoluto dello zar: qualcosa che dovrebbe sicuramente salvare Dostoevskij agli occhi di tutti da ogni possibile apparentamento con la guerra o con l’autoritarismo dei potenti.
E allora avanti con coraggio, perché Fedor Dostoevskij è l’autore che più di tutti ha saputo spingersi sull’orlo del baratro, facendoci guardare il lato oscuro di noi stessi, mettendoci davanti alla parte più inconfessabile del nostro inconscio. E di questo dobbiamo essergli grati, per il grande senso di solidarietà e di amore verso l’altro che si prova alla fine della lettura di un suo romanzo.
Oggi più che mai se vogliamo ribadire che l’Occidente è una società matura che sa stare dalla parte giusta della Storia, dobbiamo essere fieri e orgogliosi di mettere in scena Dostoevskij, sicuri che la grandezza di una civiltà sta nel saper distinguere la grande letteratura dalla piccolezza oscena e meschina del presente e dei suoi governanti.